Il mondo non ci contiene solamente, ma è la casa in cui viviamo in condivisione con il resto dei viventi. La sua attuale devastazione è una tragedia che ferisce così intimamente, che il concetto di solastalgia fatica a racchiuderlo.
Fonte originale dell’articolo (in francese): https://reporterre.net/La-devastation-du-monde-une-blessure-intime
Autrice: Belinda Cannone è scrittrice e saggista. I suoi libri ci parlano della voglia di vivere e di meravigliarsi.
Foto di copertina: Corrado Fierro ©️ www.corradofierro.it
Recentemente è sopraggiunta la necessità di coniare un nuovo termine, per descrivere una forma di sofferenza legata all’ambiente: solastalgia.
Quando nasce una nuova parola, è perché all’improvviso vediamo una realtà per la quale non avevamo a disposizione un termine per sintetizzarla- una parola mancante.
Ecco dunque una parola per descrivere la ferita che provoca assistere al degrado del mondo vivente, fenomeno che non è nuovo, ma sui cui stiamo elaborando una coscienza, generale e profonda.
La parola per descrivere questo fenomeno è un neologismo, coniato nel 2003 dal filosofo ambientale australiano Glenn Albrecht. È incorretto.
Costruito da una doppia radice: latino, solari/sōlācium (consolazione, conforto), e greco, -algia, che evoca dolore fisico o morale.
D’accordo, si percepisce un senso di nostalgia.
Eppure, non è nostalgia la natura di questa ferita. La degradazione ambientale non ci porta a rimpiangere il passato per esso stesso, ma a ci spinge a preoccuparci per il futuro.
Rimpiangiamo il nostro habitat, il nostro ambiente. I luoghi che amiamo non stanno cambiando, si stanno deteriorando. Ed è diverso.
Per più di trent’anni ho trascorso parte dell’anno nel Cotentin (penisola della Francia nella Bassa Normandia n.d.t.) e ho potuto osservare in dettaglio l’evoluzione del degrado ambientale. Ciò che si perde e si corrompe tra questi paesaggi, questi uccelli e questi fiumi, più di qualunque immagine, restituisce l’idea del processo in atto.
La solitudine del “frottou”
Per molto tempo ho vissuto in una casa di campagna, circondata da pascoli. Di fronte alla casa, dall’altra parte della strada, in un grande campo chiamato “Le Paradis” troneggia isolata una vecchia quercia, con una magnifica chioma che io chiamo “la mia quercia” anche se non mi appartiene che per la vista che ne ho dalla finestra del mio studio.
In tutta la regione questi alberi sono chiamati “frottou”, perché le vacche si strofinano il muso sulla loro corteccia (dal francese frotter).
Oggi l’intera zona è diventata un’area a coltivazione intensiva.
Addio agli animali e ai dolci prati, addio al concerto degli animali e degli uccelli, addio alle visite furtive di cervi e lepri, addio alla mia “frottou“.
Mais o grano, a seconda dell’anno. Mostri agricoli, in tutte le stagioni.
Così circondata, assalito da pesticidi e diserbanti, quanto ancora sopravvivrà la mia quercia?
Il Cotentin era una regione di siepi e boschetti che componevano un paesaggio di graziose camere naturali, rifugi spontanei per tutti gli animali. Ora non passa anno che non cadano siepi.
Altrove vengono ripiantati, ma nel Cotentin vengono abbattuti e la mia regione somiglia sempre di più ad un’immensa pianura agricola.
Come descrivere la modesta bellezza di una siepe?
Rovi, nocciole, frassini, aceri o biancospini, specie endemiche tra i cui rami giocano il sole e si nascondono uccelli – come i ciuffolotti dal bel ventre rosso, ormai quasi scomparsi perché hanno perso il loro habitat.
Sono così legata a questa idea di modesta bellezza o umile meraviglia.
Due ossimori.
Meravigliarsi dell’odore dei tigli in primavera, di un raggio di sole che indugia, il canto di un merlo o il passaggio fulmineo di un martin pescatore sul fiume.
Immergersi tra i rami delle siepi o nascondersi dietro la mia quercia… Anche se queste immagini ci circonda quotidianamente, evocano una meraviglia potente.
E ciò che chiamo umile o modesto non è la forza del sentimento, ma l’oggetto del mondo che lo suscita.
Questa sensazione di meraviglia, che ci permette di vivere pienamente il qui e ora, è sempre sotto i nostri occhi, senza il bisogno di volare alla ricerca di un paese lontano.
Casa comune
Il mondo a cui apparteniamo è la nostra casa comune, dove gli esseri viventi sono i nostri parenti e la Terra un luogo condiviso – non un semplice contenitore ma una Casa con la sua carica affettiva, la sua identità, i suoi mille fili legati alle nostre scatole craniche.
Oggi, la meraviglia che mi lega ad essa è intrisa di preoccupazione.
Il crollo della biodiversità non è solo un fenomeno che osservo: mi riguarda da vicino e mi ferisce profondamente. Perché sono intimamente colpita dai capricci delle stagioni, dall’aumento della clorofilla o dalle scelte delle api.
L’intimo non è il personale: è quella parte della mia psiche in cui risuona tutta l’umanità e tutta la vita, non solo me, non solo il mio ristretto spazio interiore.
Ecco perché la devastazione del mondo vivente sconvolge tutti noi. Non è solo il “decoro” della nostra quotidianità ad essere distrutto, ma quello della nostra Casa, indissolubilmente legata alla nostra felicità di esistere.
Sono convinta. “Solastalgia” non è sufficiente ad esprimere la nostra commozione di fronte all’agitazione di questo mondo che l’IPCC ha appena confermato, ancora una volta.